#dietrolanotizia: tra donazione di organi e anonimato
A poco più di venti anni dalla legge n. 91 del 1999 si è aperto un dibattito rispetto alla necessità che essa venga aggiornata alla luce dei cambiamenti intercorsi all’interno della società e della stessa rete trapiantologica; uno dei punti in questione è proprio quello che riguarda l’anonimato. Abbiamo chiesto un parere alle psicologhe dott.sse dott.sse Francesca Ferri (Coordinamento Regionale Trapianti della Lombardia ) e Maria Teresa Aurelio (Servizio di psicologia del NITp) di approfondire il discorso attraverso la loro esperienza.
Il principio dell’anonimato è tra quelli fondanti della donazione di organi e tessuti post-mortem nel nostro Paese, insieme alla gratuità, libertà e conoscenza del gesto. La legge-quadro sui trapianti introduce il divieto da parte dei medici e operatori sanitari di fornire l’identità del donatore o del ricevente. Per modificare l’articolo 18 risulta necessario un intervento normativo di primo livello.
Reginald Green, il padre del bambino americano che nel 1994 perse la vita durante una rapina fallita in Calabria, decise all’epoca di donare gli organi del figlio a sette persone italiane: una vicenda che contribuì in modo decisivo a diffondere la cultura della donazione di organi nel nostro Paese.
Oggi, a distanza di anni dalla tragedia, con l’aiuto di Andrea Scarabelli ha iniziato una campagna pubblica volta a mettere in luce la preoccupazione che l’articolo sull’anonimato, contenuto nella legge 91, faccia del male alle famiglie coinvolte.
A questo è seguito l’incontro con Marco Galbiati, un altro padre che nel 2017 ha perso suo figlio, che si è fatto promotore di una raccolta firme (47 mila quelle raccolte) per cambiare la legge.
Sul tema si è espresso anche il Comitato nazionale di Bioetico nel 2018 e poi nell’aprile del 2019 è stata presentata una proposta di legge alla Camera, assegnata alla XII Commissione Affari sociali in sede referente il 27 settembre 2019.
Ruggero Corcella in un articolo sul Corriere della Sera del 29 giugno sorso ha chiesto a Massimo Cardillo, direttore del Centro Nazionale Trapianti, se sia davvero possibile e auspicabile dare alla famiglia del donatore la possibilità di conoscersi.
“Il Comitato Nazionale di Bioetica, pur affermando la possibilità di derogare all’anonimato solo in una fase successiva al trapianto, e solo se tutti i soggetti coinvolti manifestano la volontà di conoscersi, introduce a mio avviso una raccomandazione decisiva: la mediazione di una parte terza.”- ha spiegato Massimo Cardillo al giornalista. “In nessun caso, i familiari del donatore e il ricevente devono essere lasciati soli in questo percorso, che resta delicato, anche quando entrambe le parti esprimono chiaramente questa volontà; basti pensare ai possibili contraccolpi psicologici e alle gestione delle aspettative connesse al percorso di conoscenza. Va poi considerato che in qualche caso la richiesta di conoscenza diretta dei riceventi può nascondere problematiche legate a una difficile elaborazione del lutto da parte dei familiari del donatore. Da quando il Cnt ha espresso il parere sul quesito posto dal Centro nazionale trapianti non è cambiato nulla nel nostro lavoro quotidiano, perché le prescrizioni restano quelle previste dalla legge 91/99. Non abbiamo neanche registrato un aumento di richieste di questo tipo rispetto al passato. Quello che registriamo più spesso da parte dei pazienti trapiantati o dai familiari del donatore è il desiderio di comunicare in modo indiretto, attraverso la struttura sanitaria, scrivendo una lettera di ringraziamento o raccontando la propria esperienza personale. Il Cnt e i Centri Regionali per i trapianti continuano a fornire informazioni anonime sull’esito della donazione qualora i familiari ne facciano richiesta. Alcuni coordinamenti regionali, inoltre, supervisionano lo scambio di messaggi anonimi tra le parti come quelli di ringraziamento, una realtà consolidata nel campo della donazione di midollo osseo“.
Adottando uno sguardo più ampio, a livello mondiale l’anonimato tra donatore e ricevente nelle sue molteplici declinazioni (donazione di organi e tessuti dopo la morte, donazione in vita di organi e di cellule staminali emopoietiche) è presente nei principali Paesi europei come Spagna, Francia, Germania e Regno Unito. Negli Stati Uniti l’incontro tra le parti è invece possibile, nel caso che entrambe lo richiedano; sono i centri trapianto a fare da mediatori della relazione tra i familiari dei donatori e pazienti, con un percorso che parte dalla trasmissione di una lettera di ringraziamento in forma anonima.
Sul tema si sono espresse anche le Associazioni di settore, quali Aido e Aned che hanno espresso alcune perplessità, invitando alla cautela: prevale infatti l’opinione che l’anonimato tuteli i nuclei familiari da rapporti complicati e dolorosi. Come emerge infatti dall’articolo pubblicato su Corriere.it il 29 giugno scorso.
Il tema etico è quanto mai attuale e interessante, per comprendere meglio quale sia la posta in gioco abbiamo chiesto alle psicologhe dott.sse Francesca Ferri (Coordinamento Regionale Trapianti della Lombardia ) e Maria Teresa Aurelio (Servizio di psicologia del NITp) di approfondire l’argomento attraverso la loro esperienza.
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La donazione e il trapianto, indubbiamente sollevano aspetti poliedrici e percorsi psicologici, emotivi, psico-sociali sia per i riceventi sia per le famiglie dei donatori.
Sia i familiari dei donatori che i pazienti riceventi sempre più spesso si interrogano e interrogano i curanti sulle reciproche identità. A questa domanda, i medici dell’equipe non possono rispondere perché la legge italiana stabilisce che “il personale sanitario e amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore e al ricevente” (art.18 comma 2, L. 1 Aprile 1999, n°91). Si tratta, comunque, di un principio generale e non specifico solo della medicina e della chirurgia dei trapianti: l’etica e la deontologia medica prescrivono, infatti, l’impossibilità di rivelare a terzi dettagli sulle persone in cura.
I canali di comunicazione attualmente esistenti, tra cui non dobbiamo dimenticare i social network, facilitano la possibilità che i familiari dei donatori e i pazienti trapiantati possano scoprire le reciproche identità e incontrarsi. Su Facebook, ad esempio, esistono delle pagine (una tra tutti: “Trapiantati e donatori…incontriamoci”) che hanno lo scopo preciso di favorire l’incontro tra ricevente e famiglie dei donatori.
Esistono delle motivazioni specifiche a favore dell’anonimato e che sono legate all’esperienza della donazione e del trapianto.
Per quanto riguarda il ricevente, questo sviluppa inevitabilmente un sentimento di gratitudine e riconoscenza verso la famiglia del donatore, oltre che, spesso, un sentimento di colpa all’idea che la propria sopravvivenza sia, in qualche modo, legata alla morte di un altro essere umano. Il rischio di un eventuale incontro è che tale sentimento viri verso una condizione patologica di dipendenza che potrebbe limitare la libertà del ricevente. La famiglia del donatore potrebbe farsi, più o meno consapevolmente, portatrice di richieste e di pressioni emotive e, conseguentemente, il ricevente potrebbe sentirsi in obbligo di agire in un determinato modo per compiacere e ripagare della loro perdita i familiari del donatore.
Il paziente trapiantato, poi, affronta la delicata sfida di integrare nella propria immagine di persona l’organo che è stato di un’altra persona. Ogni essere umano possiede un’immagine di sé e del proprio corpo; si ritiene che l’immagine corporea sia solo in minima parte innata ma si formi nel corso tempo e sia soggetta a modifiche determinate dagli eventi di vita, tra cui le malattie. L’esperienza del trapianto richiede, quindi, che il paziente utilizzi tutte le sue risorse nel processo di adattamento al nuovo organo estraneo, il quale può determinare un’alterazione della rappresentazione di sé e del senso di identità, con possibili ripercussioni psicopatologiche.
Il confronto diretto dei familiari del donatore, con l’inevitabile rimando alla persona deceduta, potrebbero complicare questo processo di integrazione.
Accade che il paziente trapiantato ponga delle domande sull’identità del donatore quando gli sembra di percepire delle differenze nel proprio carattere, nei comportamenti o nelle preferenze personali rispetto a prima dell’intervento. In tali situazioni, è indispensabile supportare da un punto di vista psicologico il paziente nell’elaborazione dell’esperienza medica e nell’integrazione di quanto accaduto nella sua storia personale. Fornire risposte concrete a dubbi di questo tipo non farebbe altro che aumentare il senso di smarrimento che il paziente sta sperimentando. Il trapianto rappresenta un’esperienza che ha bisogno di integrazione emotiva, non solo fisica.
La norma che tutela l’anonimato, anche se può sembrare dura, rappresenta, quindi, una forma di tutela emotiva sia per i riceventi che per i familiari del donatore che devono riprendere un cammino di vita che, in qualche modo, è stato interrotto e messo alla prova da esperienze (il lutto o la malattia) difficili e dolorose.
La famiglia del donatore si trova a vivere e ad affrontare uno dei momenti più dolorosi: perdere il proprio caro comporta vissuti di estrema sofferenza per tutto il sistema famiglia che si trova di fronte un periodo di instabilità, fragilità e problematicità. In termini emozionali, la donazione di organi e tessuti si configura come la risultante di un intreccio complesso di relazioni, in parte riguardanti aspetti concreti, in parte maggiore con valenze psicologiche e connesse all’immaginario.
Tra le emozioni dei familiari, dopo la perdita del proprio caro, si rilevano spesso, nella pratica clinica che dal 1991 il Servizio di Psicologia NITp svolge a sostegno dell’elaborazione del lutto di queste famiglie, meccanismi di proiezione del donatore nel ricevente. L’identificazione donatore-ricevente, in molti familiari, soddisfa l’esigenza di collocare e pensare il proprio caro in un luogo, nel ricevente, realizzando così quella fantasia inconscia che il donatore possa continuare a vivere tramite la persona trapiantata. Si innescano così dei meccanismi di difesa immediati contro l’angoscia di morte, si strutturano fantasie di “riparazione” della morte e di “sopravvivenza” del congiunto nel ricevente. Se da una parte, questi processi permettono un parziale sollievo della lacerazione emotiva provocata dalla morte del proprio familiare, dall’altra non permettono l’elaborazione della perdita e la ricostruzione di un nuovo equilibrio familiare.
In questi anni abbiamo rilevato che, nei casi in cui si è realizzato, a seguito di ricerche personali o tramite interventi dei media, l’incontro diretto tra familiari di donatori e riceventi, si sono sviluppate relazioni molto complesse: la fase iniziale di conoscenza spesso è risultata connotata da reciprocità e dal costituirsi di un legame affettivo, in cui le parti esplicitano un senso di “appagamento”, un sollievo e nel contempo un forte senso di gratitudine e riconoscenza. In seguito, nell’evoluzione di questi rapporti, però, assistiamo alla comparsa di dinamiche di destabilizzazione, in cui si attivano processi di trasposizione emotiva e disillusione nel riscontrare che la persona trapiantata è diversa dal proprio caro.
Alcune forme di simbiosi risultano basilari, come ad esempio il bambino nel ventre materno, ma devono essere spazi provvisori che necessariamente devono chiudersi affinché si possa realizzare una nuova fase e ricercare un nuovo equilibrio emotivo.
Quando non è possibile raggiungere un pieno compimento, queste relazioni incongrue diventano responsabili del blocco dell’elaborazione del lutto e generatrici anche di valenze psicopatologiche. Infatti, in diversi casi, si è osservato che lo sviluppo della relazione interpersonale, creata da questi incontri, assume, nel corso del tempo, una forma di oppressione, quasi mai esplicita e diretta, ma più spesso nascosta, insidiosa, difficile da riconoscere e da gestire, fino alla manifestazione di forme di manipolazione inconsapevole. Ciò avviene con diverse modalità: a volte si assume una posizione di fragilità per ottenere dall’altro sostegno e attenzione o si utilizzano forme implicite di investimento emotivo con una aspettativa di attese che spesso si trasformano in pretese e, non di rado, si ottengono effetti distorti e contrari rispetto a ciò che si cercava; la mancata comprensione poi rischia anche di essere interpretata come rifiuto e distacco.
Si possono riscontrare anche dinamiche in cui l’uno cerca l’altro, si lascia trascinare ponendosi in sua balìa, causando affaticamento e ribellione. Il sostegno psicologico, richiesto in queste situazioni di disagio, si pone l’obiettivo di mediare nella relazione generatasi, per portare alla luce gli impliciti e le ombre, al fine di contenere l’emergere di possibili forme di dipendenza in cui l’uno cerca l’altro per trarre continuamente energie, conferme, rimandi al proprio immaginario.
Nella nostra esperienza pratica clinica si cerca di gestire questi meccanismi, favorendo la consapevolezza della morte definitiva del proprio congiunto, inserendo la donazione degli organi come segno concreto di solidarietà umana e non individuale. In questo contesto, la condivisione del dolore genera il processo di elaborazione affettiva del lutto.
Nel corso di questi anni, l’anonimato ha consentito di costituire una significativa mediazione tra le parti, sostenendo i vissuti emotivi dei protagonisti, intervenendo sull’ordine simbolico della donazione e del trapianto, scoraggiando l’attivazione di ricerche personali e il conseguente innesco di relazioni problematiche che possono raggiungere una certa rilevanza clinica sul piano psicopatologico. Il principio dell’anonimato ha permesso di re-indirizzare lo sguardo su aspetti evolutivi della propria storia personale e familiare: un passo importante per il proprio percorso di cura e nel proprio percorso di elaborazione del lutto.
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