La nanomedicina per eliminare la terapia antirigetto con il progetto Phoenix

Dall’Istituto Mario Negri,  in arrivo una rivoluzione nel mondo dei trapianti

di Leonio Callioni e Francesca Boldreghini

È stata appresa con particolare interesse, nei giorni scorsi, la notizia diffusa da tutti gli organi di informazione e dai social, che ha preso avvio il Progetto Phoenix, per lo studio di una nuova forma di immunoterapia che sappia indurre tolleranza: vuol dire che il ricevente imparerà a “tollerare” l’organo come se fosse proprio, senza compromettere l’attività normale del sistema immunitario che ci difende da infezioni e tumori.

Questo studio è coordinato dal professor Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri, medico ematologo e nefrologo, Primario emerito della Divisione di Nefrologia dell’Ospedale di Bergamo. La sua attività scientifica riguarda soprattutto le cause delle malattie renali e della loro progressione, il rigetto del trapianto e le possibilità di cura. Da sottolineare che, grazie ad un approccio innovativo, le sue ricerche hanno permesso di aumentare il numero dei trapiantati.

Ora, questa nuova frontiera della scienza, potrebbe essere garanzia di maggiore qualità di vita per i trapiantati e costituire quindi un ulteriore miglioramento della proposta terapeutica basata sul trapianto.

“Scienza & Società – riVivere”, mensile online edito da Fondazione Trapianti, particolarmente interessato al tema della donazione e del trapianto di organi, tessuti e cellule, ha posto alcune domande al professor Remuzzi, il quale, con la sua proverbiale cortesia, ha accettato di rispondere.

Innanzitutto, professore, grazie per la sua preziosa disponibilità a illustrare le sue ricerche ai nostri lettori. “Scienza & Società – riVivere viene inviato ogni mese, dallo scorso mese di giugno, a circa 35 mila contatti e quindi può ben contribuire alla corretta informazione in questi tempi di superficialità e di “cattiva comunicazione”.

Ci racconti com’è nata l’idea della collaborazione con le realtà presenti nel progetto e perché sono stati scelti esperti provenienti dalla Spagna con la Fundació Clínic per la Recerca Biomèdica, dalla Francia con il Centre Hospitalier Universitaire De Rennes e dall’Irlanda con la Pintail Ltd, oltre ad un Gruppo di base in Canada.

È una storia molto particolare. Nel 2016, Nature pubblica un editoriale accompagnato da una figura. Leggo qualche riga del testo ma rimango incantato dall’immagine. Si tratta di una figura che si applica nelle malattie del sistema immune, che illustra l’incontro tra gli antigeni – proteine in grado di essere riconosciute dal sistema immunitario come estranee o potenzialmente pericolose – e i recettori dei linfociti T, per il tramite di determinate “cellule che presentano l’antigene”, generalmente cellule cosiddette dendritiche. In determinate circostanze, queste cellule possono assumere un ruolo regolatorio: pur restando sempre linfociti T, invece di proliferare esponenzialmente, si dimostrano in grado di regolare la replicazione delle altre cellule e quindi di frenare la risposta infiammatoria.

Ebbene, appena vedo questa figura, contatto la dottoressa Federica Casiraghi, una ricercatrice che lavora con me da tanto tempo e che ha giocato un ruolo importantissimo in questo progetto.

Mi ricordo come fosse ieri la nostra telefonata. Le dico che, a mio parere, quella figura si può applicare al trapianto. Federica, letto l’editoriale, conferma la mia ipotesi. Allora, le chiedo di scrivere una lettera al professor Pere Santamaria, un ricercatore molto importante che lavora a Calgary, in Canada, il quale, solo dieci giorni più tardi, ci comunica il suo interesse. Santamaria diventa il nostro primo partner. A lui, si aggiungeranno, in seguito, il professor Karim Boudjema (CHU Rennes, Francia) e il professor Ciaran Clissmann (Pintail, Irlanda).

Decidiamo di tentare un “Sinergy Grant” per la Comunità europea, raccogliendo l’entusiasmo della maggioranza del pool dei referees chiamati a esaminare il progetto e arrivando a presentare il nostro lavoro a Bruxelles, senza però giungere al finanziamento finale, nonostante dieci pareri favorevoli contro due, nell’ultimo dei tre esami. È così che il progetto cambia il suo nome in Phoenix, supportato dal Programma Horizon Europe Research and Innovation. Tuttavia, rimarranno sempre fissate nella mia memoria le parole di uno di quei famosi dieci referees favorevoli: “Questa ricerca cambierà la storia del trapianto”, disse.

Il progetto Phoenix parte da un assunto teorico, che è anche una regola di vita, vale a dire la capacità di trasformare le sconfitte in opportunità. Con questo nuovo approccio per il trapianto cerchiamo, infatti, attraverso un sistema di nanomedicina implementato a Calgary, di trasformare l’infiammazione legata al trapianto di qualunque organo, e l’iniziale rigetto, in una condizione favorevole alla tolleranza dell’organo. Concludendo quanto detto prima sull’incontro tra antigeni e linfociti T, la nanomedicina presenta al recettore delle cellule T quei “pezzettini” di proteine che, nel caso delle malattie immunologiche, si liberano durante il danno dell’intervento chirurgico o del rigetto, che a questo punto non proliferano più – da 1 a 100… a 1000 miliardi – con la capacità di danneggiare l’organo fino a distruggerlo, ma diventano cellule capaci di frenare la risposta immune, e non solo delle cellule T, ma anche delle cellule B, che sono quelle che producono anticorpi e riducono anche la capacità delle cellule dendritiche, quelle cioè deputate “a presentare” queste proteine alle cellule T. Tutto questo – si noti – avviene nell’organo trapiantato e si limita ad esso. Non influenza, cioè, la capacità del sistema immune di funzionare verso agenti infettivi e verso tumori, un aspetto, questo, di rivoluzionaria importanza. Il grande problema del trapianto è che siamo arrivati a livelli eccezionali sul piano chirurgico, ma i pazienti, per non incorrere nel rigetto d’organo, hanno bisogno della terapia antirigetto, la quale, però, impedisce la risposta immune in tutto l’organismo, predisponendolo a infezioni e tumori. Con questo sistema, invece, è coinvolto solo l’organo trapiantato ed è il sistema immune stesso che si regola a non diventare aggressivo nei confronti dell’organo, e non qualcosa di esterno.

Ci può spiegare meglio la parte della ricerca svolta dall’Istituto Mario Negri di Bergamo, coordinatore del progetto?

Il gruppo di Calgary prepara le nanomedicine, “piccole sferette” di sostanze che contengono sostanzialmente ferro e che vengono manipolate in modo tale da essere capaci di presentare i peptidi che si liberano durante il danno acuto. Le nanomedicine vengono poi inviate al Mario Negri. Noi, in una prima fase, le studiamo in laboratorio e poi le sperimentiamo negli animali, che sottoponiamo a un trapianto di rene o di fegato. Un risultato reso possibile grazie alla tecnica raffinatissima dei nostri microchirurghi – una su tutti, la dottoressa Nadia Azzollini, con la sua allieva Sonia Fiori – in grado di fare trapianti di organi in piccoli animali, come ad esempio un trapianto di un rene di un topo in un altro topo incompatibile, che quindi rigetterebbe. Ovviamente, i risultati dovranno essere confermati anche in un animale intermedio, il maiale, e a questo provvederà il gruppo di ricerca francese.

Sempre all’Istituto Mario Negri, si procede anche all’iniezione delle nanoparticelle che servono poi a creare l’ambiente cosiddetto tollerogenico.

Dottoressa Federica Casiraghi, raccogliamo l’invito del professor Remuzzi e le chiediamo di fornirci qualche dettaglio in più su questo studio multicentrico, in cui lei ha un ruolo fondamentale.

dottoressa Federica Casiraghi

Il gruppo di ricerca dell’Istituto Mario Negri è tra i pochi al mondo ad avere a disposizione il modello di trapianto di organi solidi nel topo, per questo motivo condurremo questa parte dello studio e ci occuperemo, per la precisione, di trapianto di rene e di trapianto di fegato. Andremo così a testare nei topi le nanoparticelle, costruite dai ricercatori di Calgary, per stabilire quale di esse – ovvero quale antigene – serva, quantomeno nel topo, per indurre tolleranza, per quanto tempo e in quale dose. Valutando l’efficacia delle nanoparticelle, e studiando tutti i meccanismi che regolano il processo che insegna al sistema immunitario a proteggere l’organo trapiantato, la nostra speranza è quella di disegnare un protocollo clinico e di arrivare ad applicarlo alla cura dei pazienti nel più breve tempo possibile. Se raggiungeremo tutte le evidenze scientifiche che ci aspettiamo, questo studio rappresenterà una svolta epocale nel campo dei trapianti.

Professor Remuzzi, favorire il trapianto di organi solidi significa donare prospettive di vita a migliaia di persone. Attualmente in lista d’attesa ci sono circa 8 mila persone ogni anno. Pensa che il progetto Phoenix possa dare un’ulteriore spinta alla medicina dei trapianti anche in ambito di possibilità di sensibilizzazione delle comunità?

Ce lo auguriamo. Sono tanti anni che inseguiamo la chimera della tolleranza al trapianto. È stato creato addirittura un Grant, su impulso dell’allora presidente americano Bill Clinton, purtroppo accessibile solo a ricercatori che vivono e lavorano negli USA.

Il trapianto è il miracolo della medicina più importante che si sia mai fatto. Io esordisco sempre nelle mie lezioni con il caso di una donna di 42 anni trapiantata di cuore. In attesa del trapianto, era ricoverata in gravissime condizioni, e se l’organo non fosse arrivato in tempo, sarebbe morta. Con il suo nuovo cuore, è riuscita a scalare il Cervino. Ebbene, nella medicina non esiste niente in grado di trasformare una persona che sta per morire in una addirittura capace di una performance atletica straordinaria.

Il limite del trapianto sono i danni della terapia antirigetto.

Noi abbiamo sempre lavorato per questo, raggiungendo risultati importanti, in passato sulla tolleranza clinica negli animali e più recentemente con le cellule staminali – abbiamo un paziente che vive da anni senza terapia immunosoppressiva e un secondo sta arrivando a questo traguardo – con un lavoro, che è solo agli inizi, molto complesso sul piano organizzativo. Confidiamo ora nel progetto Phoenix, sperando che raggiunga un obiettivo al quale nessuno è ancora mai arrivato, quello di eliminare la terapia immunosoppressiva. Una cosa è certa: i professionisti che ci lavorano, sul piano chirurgico, immunologico, della biologia cellulare, dell’analisi dei risultati in termini statistici, sono i migliori che si possano immaginare.

Dunque, vede questo progetto come un sogno che si realizza?

Sognare qualcosa – e crederci fino in fondo – è il prerequisito perché succeda.

È una storia che si ripete. In passato, volevamo fare in modo che si potesse evitare il ricorso alla dialisi per certe malattie renali. Sembrava impossibile. Ci hanno scoraggiato in tutti i modi. Ma ci abbiamo creduto. E ci siamo riusciti. Oggi, la maggior parte delle malattie nefrosiche, che comportano perdita di proteine nelle urine, non evolvono più e quindi non necessitano di dialisi.

Entusiasmo, competenza e fiducia: ecco la ricetta perché “le cose accadano”.

Quali sono le prospettive future sul tema degli organi artificiali e come si colloca la ricerca italiana sul punto?

La ricerca italiana si colloca molto bene perché i nostri ricercatori sono eccellenze in tutti i campi della medicina.

Tuttavia, nella ricerca si investe troppo poco e l’Italia è il Paese europeo con il minor numero di ricercatori. Il problema è prima di tutto culturale: occorre promuovere una nuova consapevolezza sull’importanza dei ricercatori. Perché tutto dipende dalla ricerca. La salute, in primo luogo.

Grazie!

 BIOGRAFIA PROFESSOR GIUSEPPE REMUZZI

 BIOGRAFIA DOTTORESSA FEDERICA CASIRAGHI

 

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