ETICA E TRAPIANTI: INTERVISTA A MARIO PICOZZI
Dal 12 al 16 giugno si è svolta una Summer School dal titolo Etica e trapianti sull’isola di San Servolo, Venezia. Organizzata dalla Venice International School, in collaborazione il Centro Nazionale Trapianti e il Centro di Etica Clinica dell’Università degli Studi dell’Insubria, ha visto la partecipazione di una trentina di persone, tra cui molti dottorandi provenienti da diverse parti del mondo e alcuni professionisti sanitari. Le varie relazioni dei professionisti italiani e stranieri e i lavori di gruppo hanno cercato di affrontare gli aspetti etici caratterizzanti le diverse fasi della donazione e del trapianto, fino a interrogarsi in ordine agli scenari futuri. Abbiamo intervistato Mario Picozzi, Direttore del Centro di Ricerca in Etica Clinica, Università degli Studi dell’Insubria, su alcuni temi che hanno toccato in modo trasversale le diverse sessioni del programma.
di Delfina Pavesi
Dottor Picozzi, nella Summer School Etica e trapianti si è affrontato il tema del consenso informato sia in ordine alla decisione di donare, sia in riferimento alla scelta del ricevente, tenuto conto anche dei donatori a rischio aumentato. Si è convenuto che la decisione condivisa rappresenti la modalità più congrua perché una scelta possa essere compiuta. Cosa significa decisione condivisa?
È necessario soffermarsi su questa espressione – decisione condivisa – anche per evitare indebiti fraintendimenti. Essa non significa omologazione a standard precostituiti né che occorra a tutti i costi pervenire ad una scelta concordata. Comporta il riconoscere che, se è indubbio che si debba decidere, la questione seria è a quali condizioni si possa decidere.
La condivisione sottende la prospettiva che è solo all’interno di una relazione che si può scegliere. Il paziente non sa prima del suo rapporto con il medico – nefrologo, epatologo, chirurgo – quale sia la buona decisione, così come lo stesso medico non conosce, se non nella relazione con il paziente, cosa sia bene fare. È alla fine di questa relazione che il paziente sarà posto nelle condizioni di avere l’ultima parola.
La condivisione riconosce che nella decisione l’identità dei soggetti – donatore, ricevente, familiari, operatori sanitari – è chiamata in causa, ciascuno è in gioco. Non ci si può chiamare fuori – dicendo “faccia lei” – ma occorre impegnare la propria libertà. Non perché non ci si debba fidare, ma esattamente perché, in una relazione di fiducia, la responsabilità personale non viene delegata, ma assunta, nel rispetto dei rispettivi ruoli: il paziente come paziente, il medico come medico. Si pensi, per fare un esempio, a quando occorre decidere in merito ad un organo che proviene da un donatore a rischio aumentato.
In alcune sessioni si è affrontata la questione del dono, anche a partire dalla diretta esperienza vissuta da chi è stato in attesa di un trapianto. Siamo spesso abituati a pensare alla logica del dono in una prospettiva unilaterale, ma è davvero così?
Esattamente. Chi dona dimentica ciò che ha fatto, chi riceve se ne ricorda per sempre. Il dono, quindi, non dovrebbe ammettere forme di restituzione, altrimenti si trasforma nel suo contrario, cioè il mercato. Perché allora si avverte, ad esempio, la necessità di ringraziare, inviando una lettera alla famiglia del donatore? Gratuità e gratitudine si integrano a vicenda: ogni dono attende, spera in un ringraziamento. Esso attesta, nella voce grata del ricevente, la bontà del suo gesto al donatore, confermandolo nella sua identità. Perché nel dono le identità del donatore e del ricevente sono coinvolte. Nella donazione da vivente, il donatore lo fa certo per l’altro, ma anche per se stesso. Ciò non nega il dono, ma ne consente la sua piena espressione. Il grazie non è esigito, ma atteso e sperato. Il dono non impone l’equipollenza – il prezzo imposto dal mercato -, ma riconosce il valore simbolico del grazie. Il dono cambia le identità del donatore e del ricevente, stabilendo un legame, mentre nel mercato venditore e compratore rimangono estranei.
Il dono non può essere un obbligo (si sceglie se essere donatore e non viene imposto dallo stato) ma neanche un atto facoltativo: esso è necessario perché ogni donna e ogni uomo si realizzano prima nel ricevere e poi nel donare, e le comunità hanno bisogno di gesti di gratuità per poter esistere. Per questo donare è un atto costitutivo della vita ordinaria, singola e sociale, e non il gesto sporadico di pochi supereroi.
Uno dei temi più delicati e dibattuti ha riguardato l’assegnazione degli organi, atteso che purtroppo non abbiamo organi per tutti coloro che ne hanno bisogno. Parliamo della necessità di criteri per l’assegnazione degli organi.
È certamente necessario avere dei criteri che valgano per tutti, anche dal punto di vista clinico dell’idoneità dell’organo. Non si può altresì ignorare il ruolo del chirurgo nel valutare l’idoneità dell’organo per riferimento a quel singolo paziente. Il bilanciamento tra criteri generali e singola situazione è un tema delicato. Da un lato, non si può non riconoscere la necessità di trasparenza ed equità, dall’altro vi è uno spazio non eliminabile consegnato alla responsabilità dell’equipe. Questo spazio alla discrezionalità della singola valutazione non può però scadere nell’arbitrarietà, pena la non governabilità dell’intero sistema donazione/trapianti. Questo processo di bilanciamento richiede un attento e continuo monitoraggio insieme ad una aggiornata e regolare ridefinizione dei criteri, alla cui formulazione devono concorrere non solo i clinici, ma anche le associazioni dei pazienti, così che ci possa essere realmente una condivisione non solo di ciò che si fa ma anche del perché lo si fa.
Nelle discussioni plenarie e nei diversi lavori di gruppo è emersa la questione dell’interdisciplinarità, ovvero della necessità che i diversi livelli – nazionale, interregionale, regionale – e i diversi soggetti – internisti, chirurghi, rianimatori, anestesisti – interagiscano tra di loro. Cosa può dirci al riguardo?
L’interdisciplinarità si distingue dalla giustapposizione delle competenze e richiede alcune condizioni. La disponibilità all’ascolto e la necessità di dare credito all’altro: l’interdisciplinarità è tale se il chirurgo dialogando con il nefrologo – che ne sa meno di lui in ambito chirurgico – fa meglio il chirurgo e se l’internista confrontandosi con il chirurgo – meno preparato di lui in ambito nefrologico – migliora le sue prestazioni.
In più, l’interdisciplinarità richiede una mediazione. Essa è diversa dal compromesso, in cui ogni attore cerca di portare a casa per sé il massimo e in cui ciascuno rimarca la sua estraneità all’altro. Nella mediazione, pur partendo da prospettive diverse, è possibile riconoscersi in una decisione, la migliore in quel determinato momento per quel determinato paziente. Questo richiede tempo, pazienza, perseveranza. Ma le questioni complesse, e spesso in ambito trapiantologico i casi sono difficili e richiedono la collaborazione tra molti specialisti – si pensi ad esempio alla donazione a cuore fermo – richiedono di essere affrontate in modo interdisciplinare.
Come valuta l’esperienza della Summer School? Ci sarà una nuova edizione?
L’esperienza della summer school è stata molto apprezzata dai partecipanti, in modo particolare per il clima di dialogo e di confronto che si è creato, pur tra persone con differenti competenze: medico, filosofico, biologico, giuridico. Il tempo a disposizione ha favorito la conoscenza e il reciproco apprezzamento, con un confronto che si è protratto oltre le sessioni previste.
Questo tempo “in disparte” è una risorsa importante – anche se oggi sempre più rara, per una serie di ragioni – per tutti gli operatori sanitari e, in particolare, per chi affronta questioni complesse: l’intendimento è di continuare su questa strada.
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